In difesa della fantasia…

Mi sarebbe tanto piaciuto approfondire questa settimana il concetto di libertà e donna con cui ho concluso l’ultimo articolo, ma la questione sulla censura di Roald Dahl che sta scaldando l’opinione pubblica in questi ultimi giorni non poteva lasciarmi indifferente.

Da traduttrice e insegnante non riesco infatti a trattenermi dal ripudiare questo atteggiamento di finto perbenismo dietro il quale si cela un desiderio di censura tossica e diseducativa. Perché cancellare e rimaneggiare un testo, modificandone parole e concetti, porta la fine della libertà di parola e di pensiero, fine della libertà di opinione e soprattutto: morte assoluta del senso critico.

Siamo proprio sicuri che nelle storie per bambini sia sempre stato tutto “politically correct”, ci siamo dimenticati le discrepanze di ceto sociale, la figura della donna e le fattezze fisiche così minuziosamente descritte nelle fiabe popolari? Adesso un personaggio non più essere “enormemente grasso”, bisogna fare attenzione al colore della pelle e magari ometterne l’altezza?

Tutto questo calderone di opinioni e preconcetti, non è stato però così malvagio perché mi ha dato la possibilità di ripescare alcuni saggi sulla fiaba di due grandi scrittrici e traduttrici :Cristina Campo e Natalia Ginzburg, che senza schermi analizzano ed esaltano la bellezza della magica naturalità dei libri per bambini che come conseguenza si ripercuote nella profondità emozionale dei grandi romanzi della letteratura per adulti.

La prima, Cristina Campo, col suo stile armonioso e delicatamente barocco, ci introduce al mondo della fiaba con un saggio intitolato Parco dei cervi (tratto dalla raccolta Gli imperdonabili, edito Adelphi), qui da accurata traduttrice precisa la bellezza geroglifica della poesia che è bella in quanto fedele alla natura. Ecco dunque che entra in scena la fiaba: la naturalezza della mente infantile sboccia dinanzi alla poesia ingenua di un racconto, ai suoi occhi tutto è magico, semplice e perfetto.

«Molti eroi di fiaba, nati deformi o piccolissimi vengono gettati dalla madre, decisa a osare tutto, nel centro del ballo tondo, nel cuore del loro stesso destino. Di solito il bambino, dopo qualche momento di perplessità minacciosa, viene raccolto dalle fate. La sua deformità non sarà rimossa ma solo elevata a potenza: al piccolissimo uomo sarà dato di penetrare in luoghi impenetrabili, a quello senza braccia di scoprire tesori, vene d’oro, tutto il mondo infero specchio del cielo. La sua sventura sarà per gli altri una chiave»

La bellezza si cela nel difetto, la forza nella sventura… quando però essi vengono intaccati dal seme malizioso della maturità tutto si sgretola, la bellezza si frantuma in mille insormontabili difetti e il peso della realtà adulta crolla sui pensieri. Il poeta però deve cercare bellezza e per fare ciò deve esercitarsi a tornare bambino.

« É da notare come toccando la fiaba uno scrittore dia quasi sempre il meglio della sua lingua: quasi che al contatto con simboli così particolari e universali insieme la parola non possa disitillare che il suo sapore più puro (sicché basterebbe un fabulario classico perché a un bambino fosse aperto insieme l’atlante della vita e quello della parola)»

Peccato che dopo secoli di quei bellissimi difetti che accompagnavano i bambini in una crescita intellettuale meravigliosamente variegata il perbenismo divagante abbia reciso questa naturalità, senza simboli però crolla la poesia e la maturità sgretola il pensiero critico. Mi fa quasi impressione che le generazioni future avranno paura di termini come “basso”, “grasso”, “nero” perché considerati dalla massa “poco inclusivi”. Come se gli occhi di un bambino fossero intaccati da pregiudizi tossici e offensivi, peccato che solo chi ha già instillato il male dentro di sé vede i difetti come ombre negative. Omettendo certi concetti dai libri però non salviamo i nostri figli dal male, li rendiamo solo più vulnerabili e incapaci di difendersi. La fiaba per sua natura è ricca di contraddizioni e sta al piccolo lettore farsi i muscoli in questa sorta di palestra immaginaria andando alla scoperta delle sfumature del mondo, dove i bambini possono essere “enormemente grassi” e gli uomini “piccoli e bassi”. Ma che la fiaba sia un luogo di paura creativa e difetti educativi ben lo sapeva Natalia Ginzburg che nel saggio Senza fate e senza maghi (contenuto in Vita immaginaria edito Einaudi) richiama all’ordine il caro collega Bruno Munari per aver orgogliosamente curato una collana per bambini “liberi” :

«A un certo punto mi sono accorta che quello che mi irritava erano le parole scritte sul retro di ogni volume. Queste parole dicono: «Fiabe e storie semplici, senza fate e senza streghe, senza castelli lussuosissimi e principi bellissimi, senza maghi misteriosi, per una nuova generazione di individui senza inibizioni, senza sottomissioni, liberi e coscienti delle loro forze». […]Esse mi sembravano piene di una presunzione suprema»

E infatti, sottolinea Ginzburg, come si può godere di una favola se le togliamo tutto il divertimento, sarebbe come mangiare una torta senza burro, senza zucchero e senza uova (che premetto io magari me la preparo anche quando sono a dieta, ma sarebbe un vero peccato privare un bambino di una Torta vera durante la sua infanzia). A questo punto l’Autrice paragona queste nuove favole senza il sapore dell’avventura con le meravigliose Fiabe Italiane curate da Italo Calvino piene di teste tagliate, orchi orripilanti, fate, streghe, magia antica, poveri poverissimi e principi bellissimi che abitano in castelli lussuosissimi. Tutto ciò che si desidera censurare ai bambini, lì c’è… ed è proprio questo che li invoglia a leggere. I bambini sono attratti dall’orrido, dalla paura e dalla verità, anche quella più offensiva perché lì, in quel luogo magico della fantasia, non c’è nulla di offensivo.

«La fantasia ci atterrisce perché è avventurosa, imprevedibile e forte. Noi ne abbiamo poca, e per giunta l’adoperiamo con mani parsimoniose e schifiltose. Quando si scrivono o si stampano libri per bambini, per prima cosa si sbarrano porte e finestre. No alle storie di dolore perché il dolore fa male. No alle storie di miseria perché sono patetiche. No alla commozione. No alla crudeltà. No ai cattivi, perché non bisogna che i bambini conoscano la cattiveria. […] i bambini sono fragili e perciò li nutriremo con vivande lavate e disinfettate. Li educheremo alla concretezza, avendo però sterilizzato la concretezza, avendo isolano nella concretezza ciò che non manda né bagliori né lampi. Li nutriremo con sabbia, accuratamente filtrata e senza batteri. […] Può anche darsi che gli piaccia quando non hanno altro.»

Era l’aprile del 1975 e qualcuno cercava già di sopprimere e sterilizzare la fantasia dei bambini inculcando loro concetti qualunquisti e politicamente corretti. Nella speranza (falsa) di dare vita a un esercito di piccoli automi liberi da preconcetti, ma anche di idee e senso critico. Siamo sopravvissuti a questa prima rivoluzione culturale, ora tocca a noi salvare le generazioni future da letture insapori e incolori. Io voglio che i bambini si godano la Torta, quella con tanto zucchero e tante uova, dove si può essere bassi e grassi senza necessariamente sentirsi sbagliati. Perché i bambini sono innocenza e stupore e chi cerca di bendare loro gli occhi “in nome dell’inclusione” è solo una persona piccola e stupida che merita di essere divorata da un drago.

Natalia Ginzburg, VITA IMMAGINARIA, Einaudi // Cristina Campo, GLI IMPERDONABILI, Adelphi //